Sushi? Un tempo, i tradizionalisti storcevano il naso al solo pensiero. Al cospetto dei pochi impavidi che si arrischiavano ad assaggiare pietanze esotiche, questi paladini del reazionarismo culinario inanellavano sequele piuttosto infinite di piatti della cucina italiana su cui svettava ‒ immancabile e incontrastata ‒ “la lasagna di mammà”.
Quel ragù sobbollito per dodici ore di fila doveva avere proprietà catartiche e rivendicava, da solo, un primato che nessuno doveva permettersi di mettere in dubbio. Pena: dileggio imperituro, punizioni corporali o, nei casi più estremi, la messa al bando l’espatrio dal paese natio la proscrizione l’esilio al confino.
Altri tempi. E altre abitudini. In quegli anni era diffuso un campanilismo indefesso e oltranzista e l’italianità si indossava ancora con una certa fierezza.
È dalla fine degli anni Settanta che qualcosa è iniziato a cambiare nei gusti ‒ e nei pregiudizi ‒ del belpaese. Leggenda narra che il primo vagito nipponico, in campo gastronomico, si ebbe nella Capitale. Il germe attecchì nel ristorante Tokyo ad opera del mitologico Minoru Hirazawa, per gli amici Shiro.
L’allora imberbe Hirazawa era già uno degli allievi più promettenti della scuola di cucina Tsuji di Osaka e fu mandato a Roma col preciso compito di far innamorare i mangiaspaghetti delle prelibatezze tipiche della cucina giapponese. Compito che, subito (o quasi), decise di dislocare a Milano, città sicuramente più cosmopolita e aperta alle nuove influenze.
Nel 1977, lo chef apre il “Poporoya”, primo sushi-bar milanese. Seguito a ruota dal ristorante “Shiro”. Nel frattempo, diventa Presidente dell’Associazione Italiana Ristoratori Giapponesi, pubblica un libro, “Sushi”, per Fabbri editore, e diviene, in sostanza, il punto di riferimento per tutti gli chef giapponesi che si avvicendano nella penisola nel corso di questi decenni. Il suo impegno è costantemente teso a mantenere intatti i dettami dell’antica cucina nipponica. Seguendo i suoi dogmi, proviamo a stilare un vademecum, agile e facilmente spendibile, per riconoscere un buon sushi giapponese.
– Il primo punto, non insindacabile ma fortemente discriminante: lo chef deve venire dal Paese del Sol Levante. Sembra superfluo dirlo ma non lo è. Avere un cuoco cinese o italiano o camerunense a capo di una cucina giapponese è come avere un crucco che, al posto di würstel e crauti, sminestra code alla vaccinara in vece della bonanima Sora Lella. Possibile, certo, ma non propriamente raccomandabile.
– Il pesce, ça va sans dire, dev’essere fresco e va servito crudo senza particolari lavorazioni. L’aroma dev’essere delicato. Se l’odore è pungente, facile che il patrimonio ittico stia mummificando in cucina da forse un mesetto. Rimandare al mittente.
– Il riso va trattato con l’aceto. Quando servito, dev’essere appena cucinato, tiepido e assolutamente non asciutto. Se il boccone si tramuta subitaneamente in un bolo colloso di materia organica informe, rispedire in cucina è cosa buona e giusta.
– Il filetto di pesce dev’essere leggermente più lungo della striscia di riso su cui è adagiato. Questa regola è da ossessivo-compulsivi, quindi la possiamo tranquillamente tralasciare.
Le infinite variabili possibili di sushi devono tener conto di questi pochi elementi. Sta poi alla creatività dello chef inventare nuovi accostamenti tenendo sempre in primo piano l’equilibrio dei sapori e l’unicità della materia prima.
Servito con queste accortezze, il sushi è un alimento gustoso e salutare. Il riso cotto a vapore è altamente digeribile e aiuta a proteggere le pareti dello stomaco. Il pesce crudo è un alimento ricco di proteine e povero di grassi. Oltre a questo, tutti i condimenti utilizzati sono leggeri e benefici. Le alghe, ad esempio, sono ricche di vitamine. La soia fermentata è piena di proteine vegetali. Wasabi e aceto contribuiscono a disinfettare i cibi e a rendere agevole la digestione.
Le premesse per abusarne, insomma, ci sono tutte. Specie nella stagione estiva quando l’idea di una carbonara a pranzo fa sudare l’adipe di default. Fatevi una barchetta di sushi ‒ direbbe il simpatico Hirazawa ‒ è fresco, genuino e anche molto dietetico. Ma per l’amor di Dio ‒ aggiungiamo noi ‒ non vi fidate degli all you can eat a 12 euro. A quel punto, meglio una margherita da Ciruzzo Esposito. Vi ricresce nello stomaco per tutta la notte ma almeno non vi ammazza di anisakidosi.
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