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Stefano Sgambati, scrittore: un menu stellato è come un classico della letteratura

Stefano Sgambati, scrittore

Stefano Sgambati, scrittore, nel 2014 pubblica il romanzo “Gli eroi imperfetti” con minimum fax. Da sempre appassionato di cucina e frequentatore abituale di ristoranti stellati. Facciamo alcune domande a Stefano per capire con quali aspettative un letterato si avvicina al mondo gourmet.

Partiamo dall’inizio. In genere, quali sono le motivazioni che ti portano a scegliere un ristorante invece che un altro?

In genere la curiosità e l’interesse verso l’idea di cucina che quel ristorante o quello Chef perpetra. Arrivo ai ristoranti di un certo tipo attraverso un percorso di avvicinamento più o meno consapevole fatto di documentazione, lettura, chiacchiere casuali con altri appassionati. Non sempre è il nome dello Chef a condurmi a quel tavolo: ogni tanto capita che mi interessi il tipo di cucina specifico, ad esempio per quanto riguarda i ristoranti regionali o etnici. Ho avuto la mia fase libanese, africana, nordeuropea, eccetera. In questo periodo, ad esempio, ho adocchiato un ristorante di cucina tipica valtellinese, qui a Milano.

In particolare, pensi che scegliere un ristorante stellato sia garanzia di qualità o solo un trend per altolocati?

Ne sono convinto. Certo si può rimanere delusi, ma a me francamente capita di arrabbiarmi molto di più uscendo da una trattoria o da una pizzeria, dove comunque, per bettola popolare che sia, non si risolve la cena con meno di venti, trenta euro a testa.
Sono contrario fin quasi a sfiorare il pragmatismo al concetto di ristorante “che ti fa sentire come a casa”. Io non voglio sentirmi “come a casa”, quando decido di andare a mangiare fuori. Faccio uno sforzo. Prendo la macchina. Cerco parcheggio. Mi faccio la tortura di dovermi relazionare con altri esseri umani sconosciuti. Ergo, voglio essere riverito. Voglio sentire intorno a me il rumore di mille ingranaggi che girano. Voglio che sia un’esperienza straordinaria. Altrimenti resto a casa, appunto. Io sto benissimo a casa mia.

Secondo te, da cosa dipende il prezzo di un menu stellato? È giusto che un piatto arrivi a costare quel determinato prezzo?

Non solo è giusto. Un piatto DEVE arrivare a costare quel determinato prezzo. Altrimenti tanto vale che resti nella testa del cuoco. Quei menu tipo un primo, un secondo, acqua e caffè a dieci euro non hanno alcun significato. Pagare dieci euro un pasto completo significa due cose: o che la materia prima è velenosa o che è stata rubata.
E poi il lavoro che c’è dietro: un piatto che arriva al tavolo, in un ristorante di livello, ha addosso il lavoro di quattro o cinque cuochi, spesso è questione di grammi o centimetri, di un equilibrio circense; senza contare l’esperienza. Una volta assaggiai un mix di spezie la cui bilanciatura perfetta aveva preso l’intera vita di quello Chef e non so quanti viaggi in giro per il mondo – sto parlando di vent’anni di lavoro, di ricerca, di conoscenza accumulata – e mentre queste cose mi venivano spiegate io avevo i brividi addosso. Sentivo che i miei soldi (di mestiere scrivo, ma non sono Fabio Volo: non ho alcuna particolare disponibilità economica privilegiata) stavano facendo una fine onorevole. Altro esempio: nel ristorante dello Chef Antonino Cannavacciuolo mi venne presentata una triglia perfettamente spinata (non è facile) e mi fu spiegato che c’era qualcuno in cucina che ogni giorno passava fino a quattro ore solo per spinare le triglie. Ecco, io esigo di pagare perché non voglio spinarmela io la triglia. Pagare un piatto del genere quaranta, cinquanta euro è un dovere. Andare a mangiare fuori non è un obbligo. Tantomeno un diritto.

Stefano Sgambati a cena da Chef Cannavacciuolo
Triglia e provola affumicata dello Chef Antonino Cannavacciuolo

La preparazione di un pasto da parte di uno chef stellato segue un iter piuttosto articolato. Alla fase creativa, ne seguono altre atte a calcolare la fattibilità, la coerenza e gli equilibri dei piatti ipotizzati. Ci vuole ancora tempo per far sedimentare le proprie convinzioni e renderle credibili agli occhi della brigata. Poi si passa alla scelta delle materie prime e, solo infine, alla preparazione vera e propria. Noti assonanze con la stesura di un romanzo?

Un romanzo è un atto solitario che trova riscontro solo in una fase molto più che finale, quando incontra una casa editrice e quindi un editor con cui finalmente lavorare a quattro mani e altrettanti occhi. Di certo intravedo un’analoga fatica, un lavoro di ricerca, di estenuante simile scavare. Io credo che se un’assonanza c’è, questa sia nel fallimento. Nello scrivere, come nel cucinare, fallire è importante in egual misura. Scoprire di aver sbagliato, che un capitolo è inutile o fuori fuoco o che un personaggio è poco tridimensionale o parla in modo non credibile, e che quindi tocca ricominciare, è decisivo tanto quanto capire di aver fatto giusto; un cuoco deve salare troppo una pietanza per scoprire che più sciapa era meglio e deve rifarla cento volte quella vellutata prima di indovinare la consistenza giusta. Le novantanove vellutate sbagliate portano a quell’unica giusta: non è tempo perso. Non lo è mai. Nello scrivere, come nel cucinare, sbagliare e ricominciare è costruire. Ne “Gli inquilini”, un romanzo meraviglioso di Bernard Malamud, il protagonista Harry Lesser sta cercando di finire il suo interminato e interminabile romanzo e tra frustrazioni indicibili e complicazioni truculente si rimette per l’ennesima volta alla scrivania per tentare di terminare il lavoro. Non sa bene come andranno le cose, o se ci riuscirà, perché «la sua splendida idea giaceva sotterrata in una tomba senza iscrizioni». Ecco, non c’è altro modo per fare la cosa giusta: a meno di non volersi accontentare della prima mummia a caso – che pure è una scelta e spesso paga in termini di mercato – non si può fare altro che andare per tentativi. Cioè sbagliare. Fallire.

All’interno del plot principale, antipasti e contorni sono necessari o sottotrame trascurabili?

Se si sceglie un menu completo, un percorso, allora sono necessari se si vuole conoscere a fondo l’idea di cucina di quello Chef. Altrimenti è come leggere un libro saltellando qua e là tra le pagine. Sta al commensale, comunque. Al suo appetito, al tempo a disposizione. Io ordino più spesso alla carta.

Qual è il ristorante che più degli altri ha stimolato i tuoi sensi e amplificato le tue percezioni?

Senza dubbio il ristorante Hotel Villa Crespi di Orta San Giulio, dello Chef Antonino Cannavacciuolo. Un’esperienza assolutamente abbagliante di cucina.

Stefano Sgambati, un letterato a cena nei ristoranti stellati
Hotel Villa Crespi. Il ristorante di Antonino Cannavacciuolo

Puoi dirci il piatto che hai apprezzato di più in assoluto e paragonarlo ad un romanzo famoso?

Dirò la prima cosa che mi è venuta in mente leggendo la domanda, con la massima sincerità, quindi non si tratta propriamente di un piatto. Sto pensando a un burro, un burro fatto in casa al sapore lievemente citronato che mi venne servito come amuse-bouche nel ristorante dello Chef Gordon Ramsay a Versailles.

Stefano Sgambati a cena a Versilles
Il “Trianon”, a Versailles, dove va in scena Chef Gordon Ramsay

Era una specie di cilindretto anonimo in un piattino e c’era del pane, naturalmente anche quello fatto in casa. Si trattava di una delle prime esperienze mie e di mia moglie in un ristorante del genere ed eravamo entrambi un po’ in imbarazzo: eravamo arrivati lì in treno da Parigi, era tutto un po’ strano, io ero vestito forse in modo troppo informale. Fatto sta che quando assaggiai quel burro, su una punta di pane, indeciso se fosse il caso di usare o no le mani (oggi so che sì, è perfettamente il caso) capii dov’ero, capii che cosa stava succedendo e mi rilassai. Era semplicemente la “cosa” più buona che avessi mai mangiato in vita mia e si trattava semplicemente di burro! Giuro che ho sul computer ancora una foto che feci alla sala e nello scatto si intravede anche mia moglie, che stava mangiando per i fatti suoi, e aveva gli occhi chiusi. Chiusi. La testa leggermente sollevata verso l’alto e gli occhi chiusi. Mentre mangiava del semplice, apparentemente anonimo burro. Ecco che cosa può fare la cucina, quando è fatta in un certo modo. Diventa emozione, diventa amore. Quanto al paragone con un romanzo famoso: se parliamo, come in questo caso, di potenza devastante e semplicità assoluta, allora mi viene in mente “La strada” di Cormac McCarthy.

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