Eravamo incappati nella notizia qualche tempo fa. Era rimbalzata ai quattro angoli del pianeta con la forza di un mantra particolare. Un crescendo rossiniano che non accennava ad esaurirsi. Man mano che si diffondeva, aumentavano i particolari – sempre più curiosi e stupefacenti – finché, arrivata alle nostre orecchie, la diceria ha assunto il carattere di vero e proprio diktat. Una consistenza e un’autorevolezza assimilabili al Verbo divino.
A Hong Kong mangiano piatti stellati al prezzo di un caffè. Boom!
La corteccia cerebrale va in corto circuito. Una scossa elettrica parte dal cervello e arriva alla bocca. Trapassa le papille gustative e induce una salivazione talmente copiosa che manco un san bernardo in spiaggia ad agosto. Ti vergogni della reazione eccessiva. (Sei un professionista, mio Dio!) Allora cerchi di rinsavire e trovare le forze per andare a fondo nella questione. Sfoderi il cellulare, lanci WhatsApp e scrivi un messaggio minatorio al tuo amico, Nando, che da tre mesi vive a Hong Kong. Gli intimi di andare subito a provare e farti un resoconto dettagliato entro, e non oltre, il weekend successivo.
In pillole, è questo che il giorno dopo ti scrive Nando:
«Come promesso, mi sono azzardato al ristorante digiuno di un giorno. “Tim Ho Wan”, il nome sull’insegna. La vedo bene, perché sono fuori. In fila. Ci sto da un tot. Parlo col tipo a fianco. Mi dice che il locale è lì da sette anni ma che solo da poco ha sbaragliato la concorrenza. Dice che la specialità dello chef Mak Kwai Pui è la cucina “dim sum”. Devo averlo guardato male perché ha subito tenuto a precisare: “Assortimento di piatti tipici della cucina cantonese, serviti in piccole porzioni e consumati come spuntino o come un vero e proprio pasto”. Lo dice così, in perfetto italiano, come l’avesse letto su Wikipedia. C’è un breve stallo, poi torniamo a fraintenderci. Dice che il motivo del successo, a suo parere, è l’assegnazione da parte di un ente straniero di una particolare onorificenza. Io non intendo. Lui, prima sbuffa, poi alza gli occhi al cielo e indica qualcosa. Allora capisco che allude alla stella Michelin, anche se non è notte e c’è un sole che spacca le pietre. Annuiamo. E saliviamo. Dopo un po’ entriamo e ci sediamo. Io da una parte; lui dall’altra. Ci sono circa 20 coperti, in un ambiente arredato senza troppe pretese.
Come mangiare nei ristoranti stellati a prezzi scontati
Apro il menu e leggo i prezzi. Mi viene da piangere. I piatti costano l’equivalente di 1,2 o 3 euro. Mi faccio coraggio e ordino una quantità esagerata di robe dal nome impronunciabile. Le indico con il dito sul menu alla cameriera. Lei, mi guarda e dice: “Sa che abbiamo aperto anche a New York? Lì il locale è più grandicello. Ci sono circa sessanta coperti ma l’atmosfera è rimasta pressoché quella che vede qui. Ci teniamo, noi, al rispetto delle tradizioni”. Lo dice in perfetto italiano, come fosse la mia insegnante di dizione. Allora, fiducioso, le ordino anche i ravioli al vapore con carne di manzo ma lei non capisce. Se ne va canticchiando un motivetto degli “An cafe”, almeno credo.
Mangio tutto, amico, TUTTO. Mi ripeto più volte che sono un uomo e che non posso mandare indietro niente. Arrivo alla fine in scioltezza. Sazio ma non devastato. Appagato, molto, dai sapori particolari, dalle consistenze esatte, dall’equilibrio perfetto di ogni portata. Infine, mi alzo e vado a saldare il conto. Esco all’aria aperta e devo avere un’espressione di gioia primordiale stampata in faccia perché il tipo che era in fila con me, mi guarda e dice: “Figata, vero?” E lo dice con uno spiccato accento milanese… o finlandese… forse in bergamasco o in ebraico antico. Non so, amico, io lo ascolto e sorrido. Forse è così che si esprime Dio. Lo fa in tutte le lingue del mondo, contemporaneamente».
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